Sulla carta d’identità c’è scritto: professione sarta. La storia delle zingare che creano moda a Rom

«Ho quattro bambine, vanno tutte a scuola e spero che non si sposino mai. Se proprio devono, che lo facciano almeno a vent’anni». E Magdalena, che di anni ne ha 33, sistema con uno strattone l’orlo della borsa che sta cucendo. La numero dieci delle 500 che lei e la sua amica, collega e coetanea Nadja devono cucire per il teatro Kismet di Bari, insieme ad altrettanti portacellulari. 
Ma nel portfolio delle due sarte dell'”Antica Sartoria Rom” di Roma ci sono anche e soprattutto gonne con le balze, abiti per i bambini, corpini ricamatissimi «che non hai idea che figurone fanno sopra i jeans», sorride Magdalena. Oggi ci sono soltanto loro nel laboratorio artigianale che dal 1997 fa moda gitana per i rom, ma non solo. La loro sede sulla via Nomentana, vicina al campo nomadi dove le signore vivono, si è allagata prima dell’estate. Hanno salvato macchine da cucire, forbici, fili e tessuti e ora sono ospiti nella sede di Rifondazione Comunista a due passi dalla basilica di San Giovanni, «dove trovi i rom che chiedono l’elemosina», osservano, e dai quali prendono decisamente le distanze. Il busto in gesso di Lenin segue le loro mani veloci e un tomo del Capitale regge una stampella con un abito a fiori da bambina. Sono venute in Italia dalla Romania otto anni fa e da quattro lavorano nella sartoria, 6 ore al giorno per 500 euro al mese con eventuali straordinari e contratto a tempo determinato. Più un’orgogliosa riga con scritto “professione: sarta” sulla carta d’identità, italiana. «Facciamo abiti secondo il nostro stile tradizionale, ma anche secondo gli altri – dice Nadja – perché ci piacciono tutti». In effetti appese ci sono giacche che sembrano pronte per una boutique di Jil Sander, tanto sono minimal e castigate, ma anche reggiseni che brillano di perline da sfoggiare nelle feste rom oppure gonne ricamate con virtuosismi tali da far invidia al pallio natalizio di un vescovo. Il tutto a partire da circa 50 euro. E poi modelli più costosi, come quelli per gli abiti da sposa tutti ricamati in perle di vetro (quello scelto dalla sorella di un assessore romano costa 3500 euro) e per i costumi teatrali: ne hanno cuciti per compagnie di Roma, Milano e Perugia e entro dicembre altri 30 dovranno essere pronti per essere spediti a un teatro del Nord. Certo, sarebbe meglio tornare a lavorare nella sede di prima, dove c’erano addirittura una saletta-archivio delle creazioni e un’altra per divertirsi a sperimentare i modelli. Ma sistemarla costa, e la crisi si è fatta sentire anche per loro. «Fino a pochi anni fa, quando sfilammo al Macro di Testaccio con Romeo Gigli e all’Auditorium su invito di AltaRoma, le nostre sarte erano venti – racconta Alessandra Carmen Rocco, vicepresidente della Sartoria ma anche sistematrice di macchine da cucire, all’occorrenza – ora le commissioni per i pezzi importanti sono calate, e anche per noi pagare 9 euro un sacchetto di perline è una bella spesa. Quindi ci siamo adeguate, come personale e come produzione. E oggi le creazioni più ricercate sono gli accessori, le borse, appunto, ma anche le sciarpe, i fazzoletti e le tovaglie». Carmen per Madgalena e Nadja è la “gagé” del gruppo, l’unica non rom della cooperativa a cui fa capo il marchio, e che fra le sue molteplici attività si occupa anche di procurare i tessuti per la sartoria: «Noi usiamo solo tessuti naturali – dice Magdalena – per una sarta sono i più belli da lavorare». E se quella della Sartoria Rom può definirsi una «moda ecologica» non è solo per questo: in laboratorio entrano solo tessuti di seconda mano, oppure scarti di aziende tessili o di sartorie che chiudono i battenti, «purtroppo sempre più numerose», osserva Carmen. Intanto, anche se il giro d’affari è piccolo, l’attività è ben avviata, tanto da ricevere ordinazioni via telefono; e un po’ di sostegno dalle istituzioni non farebbe male. Ma le ragazze ce la fanno lo stesso, e si divertono anche. Un giorno magari torneranno a essere di più. Intanto Nadja si accende un’altra Marlboro rossa, con scritto “il fumo uccide” in rumeno, per fare una pausa dall’ipnotico ritmo della macchina Pfaff. E Madgalena già pensa al prossimo corpetto da ricamare e ai compiti da far fare alle bambine.

di Chiara Beghelli, www.ilsole24ore.it

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